Quando il Tempo Libero Diventa Lavoro a Tempo Pieno: Benvenuti nella Creator Economy

C’è chi li definisce fannulloni, mammoni e senza voglia di lavorare. Ma no, non hanno capito che non è pigrizia: è una rivoluzione.

La Gen Z sta riscrivendo le regole del gioco, e il suo modo di intendere il lavoro sta contagiando anche le generazioni precedenti.

I boomer e la Gen X sono cresciuti con il mito della carriera lineare e del lavoro come dovere per cui sacrificarsi.

I millennials hanno iniziato a reclamare spazi e tempo per sé, marcando confini tra ufficio e vita privata.

La Gen Z, poi, ha fatto un passo ancora più deciso: il tempo libero è diventato sacro, qualcosa per cui eventualmente sacrificare il lavoro, e non viceversa.

“Il mio tempo libero vale più di uno stipendio da fame in un open space triste e senza finestre.”

E hanno ragione. Perché quel tempo non serve solo a staccare la spina: è lo spazio in cui si costruisce identità, si coltivano passioni, si curano relazioni. È un diritto. Giustissimo.

Peccato che – come sempre – ci siano di mezzo i social.

Instagram, TikTok e simili hanno messo sul piatto una promessa seducente: puoi fare soldi mostrando il tuo tempo libero, mentre vivi il tuo tempo libero.

Un bel sogno (che ben si concilia con la filosofia della Gen Z), che però, a guardarlo bene, sembra più una trappola dorata, con l’algoritmo al posto del contratto a tempo indeterminato.

Così, la vita privata non è più solo “privata”: è monetizzabile, ottimizzabile, scalabile.

Una dinamica che ha fatto la fortuna dei creator, che vivono dell’attenzione che riescono a catturare mostrando ogni attimo (o meglio, gli attimi accuratamente selezionati e talvolta confezionati) della loro esistenza.

E come se non bastasse, questa logica ha ormai trovato anche il suo corrispettivo strutturato: spuntano come funghi agenzie e network che vanno a caccia di creator in erba, pronti a “coltivare” la loro autenticità come fosse una startup da far fruttare.

Basta una passione e una connessione stabile per trasformare il tuo tempo libero in un piano marketing. Il messaggio è chiaro: “non devi scegliere tra vivere e lavorare, basta che tu lo faccia davanti a uno smartphone”. Altro che hobby: ogni interesse personale può trasformarsi in un potenziale business plan.

“Vai in vacanza?”

“Sì, a produrre contenuti.”

“Ti piace cucinare?”

“Solo se posso taggare il brand delle padelle.”

“Facciamo una passeggiata?”

“Certo, se mi filmi mentre guardo il tramonto.”

Il risultato? Una dissolvenza sempre più sfocata tra il tempo davvero per sé e il tempo per “produrre contenuti”. E in questa nebbia si fa largo una domanda fastidiosa:

Se il mio tempo libero mi serve per produrre, esiste ancora il tempo libero?

Mentre rivendichiamo la libertà di rifiutare modelli lavorativi tossici, rischiamo di abbracciarne altri ancora più subdoli.

Almeno in ufficio, una volta chiusa la porta, eri fuori. Con l’economia delle piattaforme il lavoro ti segue ovunque, con lo smartphone sempre acceso e la fotocamera sempre pronta.

Certo, a nessuno piace restare in un cubicolo otto ore al giorno, con la pausa caffè come unico sollievo. Ma siamo sicuri che documentare ogni outfit, ogni viaggio, ogni spaghettata, ogni skincare sia davvero libertà?

O è solo una versione più instagrammabile della vecchia schiavitù lavorativa?

Forse la vera ribellione oggi è difendere il diritto a un tempo improduttivo. Un tempo che non serve a nulla. Un tempo in cui si vive davvero, senza doverlo condividere.

Un tempo in cui mostrare sui social e monetizzare l’esperienza non è più il motivo per cui si vive, quell’esperienza.

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